Uno studio Italiano ha esplorato diversi stili comunicativi, scoprendo che attivano differenti aree cerebrali e che anche la sfera dell'apprendimento può essere coinvolta.
Che ruolo hanno le parole nella relazione medico-paziente?
La domanda trova spazio nella necessità di fermarsi a riflettere su cosa significhi “comunicare” una diagnosi, ascoltare una domanda, rispondere ai dubbi e paure di cui ogni persona nella posizione di paziente è portatore senza dimenticare che la gestualità, gli sguardi, il linguaggio del corpo non sono un aspetto meno importante nella comunicazione terapeutica. Esiste una domanda che ogni medico dovrebbe farsi: “quanto sono preparato, in grado e capace di comunicare con i miei pazienti?”
Il linguaggio è importante: le parole sono pietre : costruiscono o distruggono. Il silenzio è un ponte che può avvicinare o allontanare. Le pause sono importanti: costringono a fermarsi e …riflettere.
Il colloquio tra medico e paziente ha sempre una valenza simbolica molto forte, sia nel setting ospedaliero che in quello privato o ambulatoriale. E’ importante la comprensione per ricavare importanti informazioni anamnestiche ai fini della diagnosi, ma è altrettanto importante la relazione per creare un clima di fiducia terapeutica e facilitare l’aderenza alla cura da parte del paziente, e sull’andamento della malattia.
Molti ostacoli possono frapporsi : il tempo a disposizione, l’inadeguatezza del setting per comunicare al paziente o ai suoi familiari informazioni spesso emotivamente pesanti riguardo alla prognosi della malattia e soprattutto un’adeguata formazione del medico e quella sensibilità personale in grado di facilitare l’instaurarsi di un clima di fiducia e alleanza terapeutica per la guarigione e la risoluzione dei problemi e dei quesiti clinici.
Ma è possibile toccare le corde giuste per facilitare anche la motivazione e la miglior collaborazione del paziente al processo terapeutico?
La scienza oggi risponde di si: attraverso l’ attivazione delle giuste aree del cervello. E di questa teoria oggi esistono anche le 'prove fotografiche'. Un team di scienziati italiani ha osservato questo effetto 'in diretta', osservando cosa succede nel cervello del malato quando il medico gli parla, studiando le aree di attivazione, e verificando quali effetti si creino. Si tratta di uno studio sperimentale condotto dalla Fondazione Giancarlo Quarta Onlus in collaborazione con l'università di Udine, Clinica psichiatrica Asuiud Santa Maria della Misericordia.
La ricerca denominata Functional Imaging of Reinforcement Effects ha esplorato diversi stili comunicativi, scoprendo che attivano differenti aree cerebrali e che anche la sfera dell'apprendimento può essere coinvolta. Lo studio ha evidenziato che nella relazione di cura, parole gentili pronunciate dal medico nel modo migliore e al momento opportuno provocano una reazione a livello neurale e favoriscono comportamenti virtuosi nel paziente ed in chi misurandosi con una malattia deve anche trovare le risorse per combatterla.
In sintesi l’aspetto più interessante dello studio ha evidenziato mediante queste tecniche di neuroimaging (risonanza magnetica funzionale), la presenza di specifiche attivazioni cerebrali correlate alle differenti modalità argomentative e comportamentali rispetto ai diversi specifici bisogni emotivi del paziente. Per esempio tra i bisogni di un paziente esiste il "bisogno di essere compresi emotivamente ed essere a proprio agio nella situazione" e il "bisogno di attenzione.
Nel primo caso viene abbinato uno stile relazionale improntato all''influenzamento', ossia caratterizzato dall'espressione di sentimenti ed emozioni, da manifestazioni di disponibilità, flessibilità o aiuti concreti. Obiettivo tranquillizzare, motivare e dare speranza. Per l'altro bisogno invece lo stile relazionale è quello improntato all'ascolto e alla valorizzazione delle specifiche istanze del paziente.
L’efficacia e la capacità di gestire al meglio un colloquio in modo empatico, migliora la capacità di comprensione di sintomi, difficoltà quotidiane, diagnosi e strategie di cura.
Non si tratta di auspicare un “medico buono”, ma di ribadire con forza che un “buon medico” non può non affiancare alle competenze scientifiche anche quelle relazionali (Balint)